sabato 30 gennaio 2010

Recensione apparsa su "L'Indice dei libri del mese" (Anno XXVI - N. 12), a cura di Gianni Rondolino.

Moviement n.1: David Lynch; n.2: Terrence Malick; n.3: Kira Muratova, Manduria (Ta) 2009. “Moviement è una pubblicazione di cultura cinematografica senza fissa periodicità. Il nome scelto è un neologismo derivato dal semplice accostamento di due termini in un certo senso quasi sinonimi che danno luogo ad un reciproco rafforzamento semantico, movie (cinema/film) e movement (movimento)”. Così si legge nella presentazione del primo quaderno della bella iniziativa editoriale, diretta da Costanzo Antermite e Gemma Lanzo, nata a Manduria in provincia di Taranto. Un’iniziativa che non si può non accogliere con grande piacere e interesse, non soltanto perché ci viene da una terra lontana dal circuito editoriale (non solo cinematografico!), ma anche perché i tre quaderni finora pubblicati sono fatti con grande serietà e consentono di approfondire la conoscenza di tre registi tra i più validi e complessi del cinema contemporaneo. Partiamo da David Lynch. Su di lui e sui suoi film molto è stato scritto, ma i saggi di autori italiani e stranieri raccolti da Antermite e Lanzo affrontano temi e problemi in parte nuovi o riproposti in un’ottica diversa. Si va dall’uso del digitale in Inland Empire al ruolo della musica nei suoi film; dal rapporto con la pittura, allo studio attento e puntuale di Mullholland Drive; dall’analisi di Twin Peak al saggio “filosofico” sull’angoscia e sul nulla nel suo cinema: una serie di contributi inediti o tradotti per l’occasione (di Zazzara, Martinelli, Ancora, Rossi, Heydebreck, O’Pray, Sinnerbrick) che si leggono con grande interesse. Il medesimo approccio critico, variegato e articolato, si riscontra negli altri due quaderni, dedicati rispettivamente a Terrence Malick e a Kira Muratova. Anche qui, di fronte all’opera di due registi meno famosi e meno studiati di Lynch, gli scritti raccolti forniscono nuove suggestioni critiche, nuovi approcci analitici. Penso al saggio di Adrian Martin sul cinema di Malick o alla proposta di Robert Sinnerbrick di considerarlo “heideggeriano”; ma anche allo studio di Giorgio Piumatti sulle colonne sonore, a quello di Alberto Spadafora sul tessuto narrativo dei suoi film, soprattutto all’attenta analisi che fa Jean-Michel Durafour di The New World. Per quanto riguarda la Muratova, l’introduzione di Ruslan Janumyan alla sua opera è un indispensabile viatico alla lettura degli altri saggi, a cominciare da quello di Simona De Pascalis sulla “desacralizzazione del corpo”. Ma si leggano, per tacer d’altri, gli acuti e intelligenti contributi di Zara Abdullaeva e di Jane Taubman che indagano sui caratteri peculiari di una poetica cinematografica tutt’altro che semplice. Perché non v’è dubbio che Kira Muratova, purtroppo poco nota al pubblico italiano, è una regista di grande statura, i cui film, fra il drammatico e il satirico, il memoriale e il poetico, hanno lasciato nel cinema sovietico e post-sovietico un’impronta originale e indelebile. Che l’iniziativa di Moviement sia cominciata con tre titoli particolarmente suggestivi è certamente un buon segno. Gianni Rondolino

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